domenica 1 novembre 2015

Servizio sanitario nazionale: siamo al tramonto di un’idea

Definanziamento dopo definanziamento il servizio sanitario ha perso il suo connotato principale: la capacità di garantire a tutti i cittadini un eguale diritto alla salute. E così diventa sempre più forte la posizione di chi propone soluzioni alternative

ANTONINO MICHIENZI   30 OTTOBRE 2015 12:34
Inutile farsi illusioni. Il disegno che ha dato vita al servizio sanitario è acqua passata. È ormai appannaggio di una parte minoritaria del Paese.
Correva l’anno 1978 (lo stesso del rapimento Moro, della legge Basaglia e di quella sull’interruzione volontaria di gravidanza) e Camera e Senato, dopo due anni di lavori e a cinque anni dalla presentazione della prima proposta di leggesull’istituzione del servizio sanitario nazionale, avevano dato vita a un testo che nel suo incipit suonava così: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. […] Il servizio sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio».
Si era arrivato a tanto partendo da una constatazione: «Il passaggio dell’attuale organizzazione sanitaria, prevalentemente basata sull’assicurazione sociale di malattia, al Servizio sanitario nazionale deriva la sua necessità da un impegno della Costituzione, scritto oltre venticinque anni or sono e sostanzialmente inapplicato, che affermò un nuovo concetto (la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività)», scrivevano gli estensori della prima proposta di legge sull’istituzione del servizio sanitario. «La recente evoluzione del quadro generale delle malattie ha confermato che soltanto un servizio pubblico, integrato nell’attività generale dello Stato, in sostituzione del disordine delle deleghe attuali che spezzettano la tutela sanitaria per categorie, per eventi morbosi, per tipo di intervento, può assicurare i due scopi primari che concorrono all’affermazione del diritto alla salute: garantire cure egualitarie a tutti i cittadini, superando le attuali sperequazioni di classe e di zona; e consentire una efficace prevenzione delle malattie maggiormente diffuse».
Un’architettura forse imperfetta, ma un’obiettivo chiaro: la salute come diritto e pertanto l’uguaglianza come carattere imprescindibile. 
Cosa è rimasto di tutto ciò lo ricorda oggi il C.R.E.A. Sanità-Università di Roma Tor Vergata nel suo rapporto annuale: la spesa sanitaria italiana è largamente inferiore a quella dei Paesi europei con noi confrontabili (-28,7 per cento rispetto a quella dei Paesi EU14) e negli anni più recenti, quelli segnati dalle spending review, il gap è aumentato di oltre il 2 per cento l’anno. A proposito di spending review, la Sanità è l’ambito della Pubblica Amministrazione che ha dato il maggiore contributo al risanamento delle finanza pubblica. Le differenze di spesa tra le Regioni sono diventate abissali: tra la Regione in cui si spende di più e quella in cui si spende meno il divario ha raggiunto il 33,4 per cento.
Fin qui i conti del sistema salute. Che sarebbero poca cosa se non avessero un impatto diretto sulle tasche e la salute dei cittadini che arrivano a spendere per la salute in media fino a 700 euro l’anno. Così quasi 3 milioni di cittadini rinunciano a curarsi per motivi economici. Il risultato è che negli ultimi 10 anni gli italiani hanno perso il vantaggio di salute che avevano rispetto ai cittadini di paesi circostanti: a pagare di più è stata la classe media, probabilmente perché diventata nel frattempo troppo povera per affrontare la sfida di un sistema sanitario sempre più a carico dei cittadini ma troppo ricca per beneficiare sei sistemi di esenzione.
Questo il ritratto di un fallimento. Che è difficile imputare semplicemente alla riforma del titolo V della Costituzione che ha delegato alle Regioni la maggior parte delle competenze in materia di sanità.
Qualche che sia la causa, però, quel che è certo è che sta acquisendo sempre maggiore peso l’idea che il servizio sanitario, così come varato alla vigilia del Natale del ’78, non sia più sostenibile: la riduzione della capacità di rispondere all’obiettivo dell’eguaglianza nell’accesso ai servizi e l’aumento della spesa privata ne sarebbero le prove. 
Non più di una settimana fa, il responsabile nazionale sanità del Pd Federico Gelli commentava così un’indagine Censis realizzata per conto del Forum ANIA - Consumatori, una fondazione costituita dall’associazione a cui fanno capo le imprese di assicurazione: «è  arrivato il momento di interrogarsi seriamente sulla cosiddetta spesa “out of pocket” arrivata a sforare quota 33 miliardi: ha senso non mettere a sistema questa spesa dei cittadini? A mio parere occorre aprire una discussione su come sia possibile governarla. Il sistema di fatto già si regge su un’ingente quota di spesa privata, proprio per questo, credo sia utile aprire un dibattito sulla governance di queste risorse. Tengo a sottolineare che si parla di forme integrative, mai sostitutive, ma complementari al finanziamento pubblico. Con un sistema di welfare integrato che tenga conto dei fondi integrativi, riusciremo a dare risposta più agevolmente a quelle sfide future del Servizio Sanitario Nazionale».
E oggi, dalle proposte che arrivano dal C.R.E.A., si sente una campana con un suono molto simile: si auspica infatti «la definizione della quota di domanda sanitaria soddisfacibile con le risorse pubbliche, la proiezione della spesa privata residua e quindi la definizione delle regole di governo della sanità complementare, definendone la meritorietà sociale e i rapporti con il SSN; la ridefinizione dei criteri di riparto delle risorse, considerando che l’assunto (presente nei costi standard) di una sostanziale gratuità delle prestazioni è ormai superato nei fatti».
Addio dunque al servizio sanitario come garante unico del diritto alla salute dei cittadini e via libera all’ingresso strutturale di fondi integrativi (a pagamento) che lo affianchino nel finanziamento delle prestazioni sanitarie.

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